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OMICIDIO DI LIDIA MACCHI, UN VECCHIO ARTICOLO AL GIORNO IN ATTESA DELLA CASSAZIONE (2ª parte): LA COSIDDETTA “SUPERTESTE” PATRIZIA BIANCHI

I giudici dell’appello così si sono espressi sulla cosiddetta “superteste” dell’accusa: “Non vi è un solo fatto riferito (da Patrizia Bianchi) che possa dirsi rilevante per il processo penale

UN CASO ALLA VOLTA FINO ALLA FINE 

LIDIA MACCHI

OMICIDIO DI LIDIA MACCHI, UN VECCHIO ARTICOLO AL GIORNO IN ATTESA DELLA CASSAZIONE (2ª parte): LA COSIDDETTA “SUPERTESTE” PATRIZIA BIANCHI

Patrizia Bianchi, sua ex amica, la «supertestimone» interrogata in Corte d’Assise durante il processo di Varese

Il 5 gennaio 1987, Lidia Macchi, una studentessa universitaria di 21 anni, viene uccisa con 29 coltellate nel bosco di Cittiglio (Varese).
Stefano Binda, un conoscente della Macchi, 19enne all’epoca dei fatti, viene arrestato il 15 gennaio 2016, condannato all’ergastolo in primo grado dalla Corte d’Assise di Varese nell’aprile 2018 e poi assolto dalla Corte d’Appello di Milano, il 24 luglio 2019.

Stefano Binda

Hanno sostenuto l’accusa con le loro consulenze la psicologa Vera Slepoj, il criminologo Franco Posa e la grafologa Susanna Contessini.
Secondo la Procura l’assassino avrebbe scritto IN MORTE DI UN’AMICA, una lettera che era stata recapitata a casa Macchi all’indomani dell’omicidio.
Secondo la grafologa Susanna Contessini quella lettera era stata scritta da Stefano Binda.

La consulente della difesa, la grafologa Cinzia Altieri, ha da sempre contestato le conclusioni della collega.

All’indomani della condanna di primo grado gli avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli hanno chiesto una consulenza alla criminologa Ursula Franco che ha escluso che l’assassino avesse scritto IN MORTE DI UN’AMICA.

Criminologa URSULA FRANCO

Ad oggi le motivazioni della sentenza di secondo grado hanno dato ragione alla difesa di Stefano Binda 

Abbiamo deciso di pubblicare un vecchio articolo al giorno sul caso Macchi, lo faremo fino al 26 gennaio 2020.
Il 27 gennaio infatti si esprimeranno i giudici della Suprema Corte.

I giudici dell’appello così si sono espressi sulla cosiddetta “superteste” dell’accusa: “Non vi è un solo fatto riferito (da Patrizia Bianchi) che possa dirsi rilevante per il processo penale, solo e soltanto la descrizione di un profondo trasporto emotivo (…) Non è una sua responsabilità se fin dai primi colloqui ‘informativi’ con la vice ispettrice NANNI e, poi, da presunta informata sui fatti, ogni sua dubbiosa congettura ed ogni suo labile sospetto siano stati valutati alla stregua di un “Ipse dixit” (…) Né, infine, è sua responsabilità se una mera confabulazione, un suo falso ricordo (giacché, viceversa, occorrerebbe configurare smaccata mala fede), immeritevole non solo di approfondimento ma persino di interesse investigativo, abbia comportato nientemeno che lo ’sbancamento’ con l’intervento dell’Esercito – del Parco Mantegazza.”

Il 15 gennaio 2016 Giacomo Galanti ha scritto sull’Huffington Post:

Lidia Macchi, Stefano Binda incastrato da una lettera. La grafia riconosciuta da una sua amica 

A incastrare 29 anni dopo il presunto killer di Lidia Macchi sono una lettera e un foglio ritrovato in casa sua con su scritto “Stefano è un barbaro assassino”

È stata la calligrafia a tradire Stefano Binda, accusato di omicidio aggravato, all’epoca dei fatti conoscente della vittima che frequentava il suo stesso giro di Comunione e Liberazione nel varesotto.

Poco dopo il delitto nel gennaio del 1987, una lettera anonima viene recapitata a casa dei genitori di Lidia Macchi. Nella lettera c’è scritta una poesia dal titolo “In morte di un’amica”.
Il testo integrale è scritto in stampatello su un foglio bianco, di quelli da inserire nei quaderni a ganci, su due colonne.

Il modo di scrivere viene riconosciuto da un’amica di Binda. “Mi colpiva la grafia in quanto da subito mi è parsa familiare – testimonia davanti al pm il 24 luglio 2015 – (…) così andavo a riprendere le cartoline che mi aveva spedito in quegli anni Stefano e con sorpresa notavo una grande somiglianza della grafia” 

La donna, infatti, vede la lettera anonima, mandata alla famiglia Macchi il giorno dei funerali, pubblicata nel giugno del 2015 sul quotidiano ‘La Prelapina’ e nota la somiglianza della grafia con le cartoline che le inviava Binda.
Una perizia comparativa, poi, tra quelle cartoline e lo “scritto” anonimo ha permesso, stando all’ordinanza firmata dal gip di Varese, di “disvelare” l’autore di quel “componimento in versi”, ossia lo stesso Binda.

Il movente. Secondo il gip che ha dato il via libero all’arresto, Binda avrebbe ucciso la Macchi “per motivi abietti e futili, consistenti nell’intento distruttivo della donna considerata causa di un rapporto sessuale vissuto come tradimento del proprio ossessivo e delirante credo religioso, tradimento da purificarsi con la morte; intento punitivo pertanto del tutto ingiustificabile e sproporzionato agli occhi della comunità” 

La dinamica del delitto. Da quanto si è saputo in relazione all’imputazione di omicidio volontario aggravato dai motivi abietti e futili, dalla crudeltà, dal nesso teleologico e dalla minorata difesa, Binda, 48 anni (aveva un anno in meno di Lidia Macchi all’epoca), avrebbe prima costretto la ragazza ad un rapporto non consenziente e poi l’avrebbe uccisa con coltellate “a gruppi di tre”.

In particolare, l’uomo, laureato in Filosofia e descritto come “colto”, senza occupazione fissa (prima di essere arrestato viveva con la madre pensionata a Brebbia, nel Varesotto), e con un passato di droga negli anni ’90, sarebbe salito sull’auto della giovane il 5 gennaio 1987 nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio, in provincia di Varese, dove Macchi si era recata per andare a trovare un’amica.

L’auto con a bordo i due, sempre stando all’imputazione, si sarebbe mossa fino a raggiungere una zona boschiva non distante e là Binda, secondo l’accusa, avrebbe prima violentato la ragazza e poi l’avrebbe punita uccidendola, perché nella sua ottica aveva “violato” il suo “credo religioso” ‘concedendosi‘.
Non è chiaro, nell’ambito delle indagini basate su una serie di indizi, se l’uomo abbia costretto la ragazza a salire in auto con lui nel parcheggio e ad appartarsi vicino al bosco.

L’avrebbe, poi, colpita, dopo la violenza, con numerose coltellate prima in macchina e poi mentre cercava di fuggire all’esterno. I colpi, in particolare, sarebbero stati inferti “alla schiena” e anche ad una gamba mentre stava cercando di scappare. Lidia Macchi sarebbe morta per le ferite e per “asfissia” e dopo una lunga “agonia” in una “notte di gelo“.

Quest’ultimo passaggio del capo di imputazione, formulato dal sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda, riprende alcune parole scritte nella misteriosa ed inquietante lettera anonima che arrivò il giorno dei funerali alla famiglia Macchi.
Lettera che, secondo le nuove indagini, sarebbe stata scritta proprio da Binda.

Il testo integrale della lettera

In morte di un’amica

La morte urla
contro il suo destino.
Grida di orrore
per essere morte:
orrenda cesura,
strazio di carni.
La morte grida
e grida
l’uomo della croce.
Rifuto,
il grande rifiuto.
La lotta
la guerra di sempre.
E la madre,
la tenera madre
con i fratelli in pianto.
Perché io.
Perché tu.
Perché, in questa notte di gelo,
che le stelle son così belle,
il corpo offeso,
velo di tempio strappato,
giace.
Come puoi rimanere
appeso al legno.
In nome della giustizia,
nel nome dell’uomo,
nel nome del rispetto per l’uomo,
passi da noi il calice.
Ma la tetra signora
grida alte
le sue ragioni.
Consumatus est
questo lo scritto dell’antichissimo errore
E tu
agnello senza macchia
e tu
agnello purificato
che pieghi il capo
timoroso e docile,
agnello sacrificale,
che nulla strepiti,
non un lamento.
Eppure un suono,
persiste una brezza
ristoro alle nostre
aride valli
in questa notte di pianti.
Nel nome di Lui,
di colui che cui ha preceduto,
crocifissa,
sospesa a due travi.
Nel nome del Padre
sia la tua volontà.”

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