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ANALISI DEL VOTO EUROPEE : Voto europeo e rapporto città/campagne

Non è un ritorno al passato ma l’incapacità della politica riformista di rispondere ai problemi inediti di una ruralità di conio nuovo

AUTORE ALFONSO PASCALE : Voto europeo e rapporto città/campagne

Michele Serra ha concluso l’amaca del 27 maggio a commento del risultato delle elezioni europee: “Facessi politica, il primo appunto che scriverei sul mio foglietto o sul mio file è: città/campagna, questo è il problema”. Il tema è stato ripreso sul blog dell’Associazione Libertà Eguale da Alberto De Bernardi, con argomenti persuasivi: “Il Pd (…) perde nelle zone che potremmo definire rurali sia al nord che al sud, anche se ci sono delle affermazioni di sindaci democratici anche in piccoli comuni periferici. È in questa grande periferia del paese, demograficamente più vecchia e culturalmente meno attrezzata, dove più alligna il degrado civile e più forti si sono fatti sentire i morsi della crisi, che ha avuto più facile presa la narrazione cupa di una Italia islamizzata e vittima indifesa di un’onda migratoria incontrollata, che doveva difendere con le unghie e con i denti il proprio decrescente benessere conquistato nel passato e rifiutarsi di “condividere” con lo straniero, l’estraneo, il proprio welfare. (…) Nelle grandi aree urbane, invece, la situazione si è ribaltata perché è emersa la qualità di una leva di sindaci che ha ottenuto risultati notevoli, basati su un’indiscutibile esperienza di buon governo. Nello spazio metropolitano la narrazione degli “imprenditori della paura” non ha sfondato, per l’articolazione delle istituzioni cittadine, per la qualità dei servizi comunque offerti, per la vivacità dell’offerta culturale, per una presenza ancora visibile dei partiti e dell’associazionismo politico: forse i progressisti non stavano solo ai Parioli, ma si annidavano nella maggioranza dei quartieri cittadini”.

In effetti, la Lega di Salvini accresce i suoi consensi nei piccoli centri, lontano dalle grandi e medie città. Il PD resiste solo nelle grandi aree urbane del nord e del centro. Addirittura nelle metropoli il voto si divarica meno tra i quartieri cittadini. Nelle città del Sud sono i grillini a tenere, mentre cresce l’astensione nei territori rurali. Si sta, dunque, ricostituendo un divario politico tra città e campagne.

Non è un ritorno al passato

Al tempo della prima repubblica era la Dc il partito a sfondo tipicamente rurale. Nel 1944 provocò, d’intesa con la Chiesa di Pio XII, una scissione a freddo della Confagricoltura appena ricostituitasi sulle ceneri della Confederazione fascista degli agricoltori per fondare la Coldiretti con un carattere marcatamente confessionale e con il compito di essere lo strumento di organizzazione del consenso al partito cattolico nelle campagne. La percentuale dei suoi votanti s’innalzava costantemente con l’innalzarsi della percentuale degli attivi agricoli. E poi c’era uno schieramento di sinistra con qualche, sia pure moderata, propensione urbana: non tanto ad opera del Pci, il cui continuo andamento crollava solo dove la percentuale degli attivi agricoli oltrepassava i tre quarti, ma soprattutto a opera del Psi, tipicamente metropolitano.

Con la fine della “guerra fredda”, lo scenario politico si polarizza tra centrosinistra e centrodestra. E, nelle elezioni politiche del 2006, i voti urbani e rurali si bilanciano all’interno dei due schieramenti. Questo fenomeno di omologazione si verifica negli ultimi decenni sull’onda di processi spontanei avvenuti nella società dal basso. Processi che sono l’esito del passaggio da una ruralità di miseria ad una ruralità di relativo benessere e che segnalano un avvicinamento sul piano delle condizioni economiche dell’urbano e del rurale, una volta nettamente separati e, soprattutto, fortemente squilibrati.

Solo la Lega nord, fin dal suo sorgere, presenta un marcato carattere di ruralità, soprattutto nel Nord-ovest. Questo avviene perché è l’unica forza politica a interpretare immediatamente i segnali di disagio e a leggere i nuovi bisogni di chi vive la ruralità di relativo benessere. Disagio e bisogni fortemente correlati al fenomeno della globalizzazione (apertura dei mercati e immigrazione) e agli effetti della crisi economica.

Oggi, con la nuova polarizzazione tra europeisti e sovranisti, il divario politico tra l’urbano e il rurale si ripropone ed è la Lega a mostrarsi come la forza politica più attrezzata ad attrarre maggiormente il voto delle aree rurali. Non solo al Nord ma anche al Centro. Circoscrizioni dove le condizioni economiche delle aree rurali si avvicinano di più a quelle delle aree urbane. Il Sud rurale, invece, mentre l’anno scorso aveva votato M5s, questa volta si astiene e, solo in parte, fa confluire il suo voto nel Carroccio. Avviene dove manca la capacità di coniugare attività estrattive e sostenibilità in una logica di sviluppo (come in Val d’Agri) o di gestire l’accoglienza di migranti in termini di reale integrazione e di costruzione di vere opportunità occupazionali (come a Riace).

Guardare al fenomeno nel lungo periodo serve a comprendere che non siamo affatto in presenza di un ritorno al passato o di vecchi fili della storia che, dopo decenni di interramento, si rianimano. Non solo perché i soggetti politici sono diversi, ma soprattutto perché le città e le campagne si sono completamente trasformate e presentano problematiche del tutto nuove.

I problemi della nuova ruralità

C’è in Italia un sommovimento demografico che interessa soprattutto le aree rurali. I piccoli comuni della montagna e della collina si spopolano e gli imprenditori di queste zone dismettono le attività. Nell’arco alpino e in tutto il dorsale appenninico la gran parte dei terreni è in stato di abbandono. Le condizioni di isolamento delle comunità superstiti si sono inasprite. Qui sono ancora ampi i territori privi di connessione internet. Non ci sono sistemi di trasporto efficienti che permettono alle famiglie di utilizzare servizi culturali e ricreativi. Le aree protette sono gestite in base alle aspettative degli abitanti delle città per invogliarli a fruire dei servizi che i parchi erogano. Il tutto a scapito delle esigenze degli agricoltori e dei residenti, il cui disagio viene sprezzantemente ignorato.

I giovani vanno via dalle aree rurali non perché si è in troppi, come avveniva tra la fine degli anni ’50 e gli inizi dei ’70, ma perché le regioni non utilizzano efficacemente i finanziamenti europei per creare percorsi di sviluppo innovativi. È una favola metropolitana il cosiddetto “ritorno alla terra”, raccontata in termini bucolici dai media che pubblicano a getto continuo, senza alcuna verifica, le veline della Coldiretti e gli editoriali di Carlo Petrini nel frattempo diventato presidente di Campagna Amica (una struttura di Coldiretti che funge da specchietto delle allodole per accrescere i clienti dei propri servizi fiscali e di patronato e in cui collabora anche l’ex verde Pecoraro Scanio, uno dei principali affossatori di un sano e autentico ambientalismo in Italia).

Siamo, ormai da anni, in presenza di un generale fallimento della PAC (Politica Agricola Comune) che nessuno vuole vedere per non mettere a repentaglio l’immane struttura burocratica creata appositamente per gestirla. La fetta più cospicua della spesa agricola (che costituisce il 40 per cento del bilancio dell’Ue) è destinata a interventi assistenzialistici che depotenziano ogni capacità innovativa degli agricoltori. Tale politica è volutamente implementata dagli Stati membri per favorire talune lobby molto ristrette e scaricare la responsabilità delle distorsioni e di suoli effetti negativi sulle istituzioni europee. Il greening (rispetto delle pratiche benefiche al clima e all’ambiente) è solo la foglia di fico con cui si nascondono inefficienze e inefficacia della PAC, alimentando così una concezione assistenzialistica e furbesca della sostenibilità che non diventa senso comune.

Il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), nonostante i continui tentativi di riorganizzazione delle sue strutture, è allo sbando. Le Facoltà di Agraria e gli Istituti tecnici agrari sono perlopiù scollegati dai sistemi agricoli e alimentari e il loro personale docente è spesso non aggiornato sui ritrovati scientifici e tecnologici. E pertanto le campagne sono quasi prive di supporti per l’innovazione.

In tale quadro di fragilità delle istituzioni pubbliche della conoscenza, da alcuni anni si sta verificando un attacco sconsiderato alle scienze e alle tecnologie applicate all’agricoltura (fitofarmaci, Ogm, robotica, digitale, ecc.) ad opera di forze pseudoambientaliste, sostenute dai partiti populisti e da amministratori regionali e locali alla ricerca del facile consenso. Sono coinvolti in tali iniziative anche settori della magistratura, come dimostra la vicenda della Xylella fastidiosa. È un attacco fondato sulla disinformazione per alimentare una percezione distorta dell’attività agricola da parte dell’opinione pubblica, improntata al sospetto e alla sfiducia. Si tende a negare il fatto che gli agricoltori siano in grandissima parte imprenditori che utilizzano la tecnologia in modo responsabile e nel pieno rispetto delle leggi, offrendo prodotti agricoli sicuri e a prezzi contenuti. L’effetto è, dunque, una condizione di prostrazione degli agricoltori, additati come avvelenatori e distruttori dell’ambiente.

Un nuovo intervento pubblico per la sostenibilità delle aree rurali

È noto che sui temi della sostenibilità c’è una grande incertezza. E le politiche che si mettono in piedi, se non sono definite e implementate efficacemente con il supporto delle istituzioni di ricerca, si prestano ad essere strumentalizzate dalle forze sovraniste e populiste.

Occorre una capacità delle forze europeiste di collegarsi con il mondo della scienza e della ricerca, ricostruendo un rapporto che si è completamente rotto. Da qualche tempo emerge una forte e diffusa domanda di di dialogo, rivolta alla politica riformista, da parte di scienziati, ricercatori, docenti universitari e tecnici, che ancora non viene raccolta. Solo l’Associazione Luca Coscioni svolge lodevolmente questa funzione di raccordo.

La PAC va profondamente ripensata, con un dibattito che esca dalla cerchia degli addetti ai lavori e coinvolga tutti coloro che sono interessati a risolvere i problemi delle aree rurali. Il prossimo confronto sul bilancio dell’Unione Europea non può riguardare solo gli aspetti quantitativi delle risorse da ripartire tra le varie politiche, ma dovrà necessariamente correlarsi con il dibattito sulla nuova ripartizione delle competenze tra l’Unione e gli Stati. E in tale quadro, dovrà essere affrontato necessariamente lo sdoppiamento della PAC, tra materie che dovrebbero essere di esclusiva competenza unionale (sicurezza alimentare, stipula di accordi commerciali con altri Paesi, coordinamento del sistema della conoscenza e regime assicurativo in agricoltura per i rischi derivanti dalla volatilità dei mercati) e quelle che dovrebbero essere di esclusiva competenza nazionale, per ottenere una semplificazione, una maggiore aderenza ai problemi dei territori e una efficienza ed efficacia dell’intervento pubblico per lo sviluppo sostenibile delle aree rurali.

Bisogna cogliere l’occasione del rafforzamento delle forze europeiste nel Parlamento Europeo per aprire il Semestre costituente e predisporre un progetto di revisione del Trattato sull’Unione europea che affronti anche problemi che l’opinione pubblica non vede o percepisce in modo distorto e su cui i sovranisti costruiscono il proprio consenso.

GRAZIE ad ALFONSO PASCALE per questo suo prezioso CONTRIBUTO

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