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La svolta a sinistra del Movimento 5 Stelle (guardando al Pd)

Sia tra i Cinquestelle sia tra i Democratici di che cosa potrebbe succedere dopo una rottura traumatica del governo già si parla, eccome.

Sia tra i Cinquestelle sia tra i Democratici di che cosa potrebbe succedere dopo una rottura traumatica del governo già si parla, eccome.

di ANTONIO POLITO

È solo tattica, questa svoltona a sinistra dei Cinquestelle, per schiacciare Salvini sull’estrema destra e trovare un po’ di spazio vitale dall’altra parte?

Oppure è una strategia, un’idea che potrebbe tornare utile dopo eventuali elezioni anticipate, un piano B: la costruzione di una alleanza alternativa con il Pd?

Considerati i tempi che viviamo, si tenderebbe a rispondere: è tattica. I leader di oggi non riescono a guardare oltre il prossimo sondaggio (cioè le europee), figuriamoci se sanno fare strategie. E però i lettori devono sapere che sia tra i Cinquestelle sia tra i Democratici di che cosa potrebbe succedere dopo una rottura traumatica del governo già si parla, eccome. Sottovoce, naturalmente: il nemico leghista ascolta. E capisce. E infatti Salvini ha ieri esplicitamente evocato lo spettro di un’alleanza Pd-5 Stelle per bloccare autonomia regionale e flat tax.

Certo è che il leftismo di Di Maio sta diventando quasi imbarazzante. I pentastellati sono antifascisti al Salone di Torino e pro-cannabis negli shop, visitano gli inquilini rom di Casal Bruciato e inneggiano a papa Francesco che riaccende la luce nei palazzi occupati dai profughi. Hanno fatto il reddito di cittadinanza e ora propongono il salario minimo.

Ieri Di Maio ha persino preso le difese del partito dei contestatori di Salvini nelle piazze: «Sequestri di telefonini, persone segnalate, striscioni ritirati. Troppa tensione». E poi la botta al ministro dell’Interno: «Mi appello a tutte le forze anche di governo, basta slogan». Un po’ è semplice geometria elettorale: se Salvini chiede un referendum su di sé alle Europee, allora la posizione più comoda è quella del No: nell’uno contro tutti, di solito vincono i tutti (ricordate Renzi?). Di Maio sta appunto provando a mettersi alla guida dei tutti. E poi cercare voti a destra che senso avrebbe? Lì ci sono solo posti in piedi. Salvini ha fatto il pieno e il resto è della Meloni. Anzi, prima o poi perfino il Capitano si dovrà fermare nella sua marcia su Casapound: gli sta aprendo una falla di consensi al centro.

Dunque, se il M5S va a sinistra nessuno si meravigli. È un partito di plastilina, materiale perfino più malleabile della plastica di cui era fatto quello di Berlusconi. È un transatlantico elettorale, ma gli puoi cambiare rotta come a una barchetta: basta che si mettano d’accordo sette-otto persone. Non è Podemos o Vox, non ha un’ideologia. È una cosa né di qua né di là. Estremista ma di centro. E in Italia c’è un’antica tradizione di partiti di centro che guardano a sinistra (definizione di De Gasperi, speriamo non si rivolti nella tomba). L’unico vero core business del M5S è il giustizialismo, e su questo ha capito che con Salvini non va da nessuna parte: il riflesso condizionato del leghista medio è di applaudire in aula Paolo Sisto, avvocato di Berlusconi, che difende Siri. Mentre il Pd di Zingaretti, liberatosi di Renzi, beh, il linguaggio del giustizialismo lo capisce eccome.

Il gruppo intorno a Di Maio si è convinto che Salvini romperà, e sta cercando un piano B. Così si è ricordato del piano A. Perché non è un mistero che subito dopo il voto la prima scelta del leader, e del pezzo importante di establishment che lo incitava, era un’alleanza con un Pd derenzizzato. Sappiamo tutti perché non andò in porto.

Ma una seconda volta potrebbe? Sono anni che i due partiti si odiano fraternamente, e ogni loro incontro ha prodotto solo indimenticabili streaming, entrati nella storia della comicità involontaria. Ma mai dire mai.
Nel circolo che consiglia Zingaretti se n’è già parlato. «Ci sono due condizioni: la prima è mai in questa legislatura». Il nuovo Pd esclude in radice qualsiasi ribaltone, anche tecnico, dopo una crisi: se cade il governo si vota. Forse è proprio Zingaretti quello che più ha bisogno delle elezioni: così cambia i gruppi parlamentari renziani e tiene insieme un partito che solo in campagna elettorale non litiga. Stampelle non ne darà, e forse non gli saranno neanche richieste da chi di dovere.

E la seconda condizione? Che il Pd nella prossima legislatura abbia un voto più dei Cinquestelle, e dunque possa reclamare Palazzo Chigi. Solo così Zingaretti potrebbe provare a trascinarsi dietro un partito che, a differenza del M5S, guidi solo se metti d’accordo un migliaio di capi, capetti, leader, liderini, correnti e correntisti. Altrimenti scissioni a go-go.

Voi direte: ma come fa il Pd a scavalcare i Cinquestelle?

È una buona domanda. Fatela al segretario. Potrebbe rispondervi che se ci metti vicino un altro partitino di sinistra, e un partitino di centro, e un partitino di Bonino, allora si arriva al 30% e i Cinquestelle devono per forza fare lo junior partner. È il proporzionale, bellezza. Ed è così che si vota in Italia, meglio non dimenticarlo.

Ps. Questo scenario può essere rovinato solo da un evento altamente probabile: che le prossime elezioni le vinca il centrodestra.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
13 maggio 2019 (modifica il 13 maggio 2019 | 23:40)
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