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U COME UMILTÀ

Dal latino da humus, terra, ha quindi a che fare con il “dove”, prima che con il “come”,

di Rosella Corda (PhD Filosofia e Storia)

U come “umiltà”. Spesso si utilizza questo termine in frasi dal tono di un rimprovero, per richiamare all’assunzione di comportamenti improntati a una maggiore modestia,  biasimando quella presunzione che talvolta colora di supponenza le nostre azioni.Oppure vi si fa riferimento per evidenziare una particolare condizione sociale. Ma che significa la parola “umiltà”? Un’antica qualità morale? L’espressione di una consapevole compostezza?La connotazione di una estrazione o condizione sociale? Rivolgiamo come al solito la nostra preliminare attenzione all’etimologia. Il termine viene dal latino ed è da ricondursi a HUMUS, che vuol dire “terra”.  La parola “umiltà” ha quindi a che fare con il “dove”, prima che con il “come”, o il “quanto”. In tal senso, è una parola che, alludendo allo spazio, serba la traccia di un ordine. Quest’ordine, cui si fa riferimento sottotraccia, è totalmente privo dei segni del tempo? Quando diciamo “terra”, dicendo “umiltà”, facciamo immediatamente segno a un “dove”, il “basso” che, però, è frutto anche di un “quando”, essendo il luogo del sedimento. Per cui, se prima di tutto con “umiltà” richiamiamo il dove, con “humus” richiamiamo il concime della terra, ciò che depositandosi e stratificandosi rende fertile la terra. Una terra per-noi, un territorio. La parola “umiltà” ci racconta primariamente del significato di una linea, forse un limite o una demarcazione, forse un orizzonte o un campo, attraversati, percorsi, costruiti. Si tratta, allora, del perimetro di quello spazio fondamentale, primo, che è la casa nel senso di oikos. La parola “umiltà” ci racconta del costruire habitat, ambienti. La “terra”, cui fa riferimento il termine, non è la curva asettica di un altrove sempre al di là, ma il proprio, lo specifico terreno che la presenza, l’esser-qui, popola, alimenta. L’umiltà della terra corrisponde all’umiltà del trovarsi e ritrovarsi umani. In quest’ottica, “umiltà” può voler richiamare un aspetto etico: dall’abitare in senso stretto, coltivando ancestralmente la terra, all’economia del sé, all’etica del ritrovarsi presso se stessi. Ma “umiltà” significa anche il “basso”, il minimo, l’orizzontale – e non l’orizzonte – diquesta condizione. Si dice “umile” anche per dire povero. Cosa c’è di povero, allora, in questo abitare la terra? In realtà c’è una povertà, in questa economia ancestrale dell’abitare e popolare la terra, che è al tempo stesso una grande risorsa. Si tratta dell’ascesi, dell’esercizio del piegarsi sulla terra, per addomesticarla. Con cosa viene a rimare, quindi, il termine “umiltà”? Con la parola “cultura”, nel suo senso più proprio. Non ci dovrebbe essere cultura che non sia sostanzialmente umile.  “Cultura” viene da COLERE, che vuol dire appunto “coltivare”. Si coltiva la terra come si coltiva una passione. Essere umili richiama l’esercizio del prendersi cura di qualcosa, ovvero avere a cuore. Si tratta del doppio senso di una passione che agisce: occorre nutrire per nutrirsi, produrre e ridistribuire nutrimento. La povertà propria dell’umiltà è quella di Penìa, la dea della povertà, che Platone, nel Simposio, ci racconta essere madre di Eros. La genia di quest’ultimo, quale divinità del desiderio, si ritroverebbe appunto in Penìa, madre, e Poros, padre e a sua voltadio degli espedienti. La cultura umile corrisponde a un bisogno, mette in campo degli espedienti, costruisce habitat. Ma in quanto miscela di bisogni ed espedienti, la cultura, a partire dal basso, esprime il genio dell’umano abitare la terra: quel bisogno è già da sempre desiderio e slancio. Nell’umiltà si ritrova tutto ciò che è tipicamente umano: il limite e il superamento del limite. Avere umiltà vuol dire sapere: conoscere il senso dell’origine per dispiegarne la storia. Quel piano orizzontale che l’umiltà dischiude è quello più vicino alle radici, alla provenienza e all’assenza di una provenienza assoluta – veniamo tutti da un luogo che non abbiamo deciso e in cui siamo (ac)caduti. C’è una tracotanza, però, una hybris, che è implicita nella natura umile dell’uomo e si ritrova proprio nel bisogno di mettere in campo delle soluzioni utili alla vita, per sfidare la sua stessa fragilità, la sua stessa caducità. Nella rima che l’umiltà fa con la cultura si esprime il movimento che dal basso sale verso l’alto, il movimento ascensionale stesso che porta dal segno al simbolo e ritorna al segno per amplificarlo. Ma l’umiltà racconta anche dell’equilibrio di questo movimento, come di un funambolo sulla linea-fune inizialmente demarcata. L’umiltà racconta della giustizia propria della cultura di questo abitare: una eco-logia eco-sofica. Il sapere, dunque, come rete complessa di originari e derivati espedienti, può essere una cartografia dell’abitare comune e fertile, dove sono tracciate le mappe di una sempre possibile produzione di soggetti-desideranti, vividi; ma può essere anche il suo contrario: l’accartocciare l’orizzonte nelle pieghe della sopraffazione. In tal senso la cultura si traduce in violenza. Una cultura dell’esclusione nega la terra a tutti  e per principio. L’idea, cioè, che la “povertà” sia di qualcuno, e non nella genealogia di tutti, è la più immodesta e ingiusta affermazione di inumanità.  E l’inumanità è la terra dell’odio, la terra-di-nessuno che divora la terra di tutti. Se è una violenza terribile umiliare qualcuno, ha invece senso richiamare tutti a una cultura dell’umiltà.

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