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CINISMO: DA ATENE A OGGI

Le parole sono importanti: viaggio nell’etimologia

di Rosella Corda*
È noto come l’aggettivo “cinico” derivi dal latino CÝNICUS e, prima ancora, dal greco KYNIKÒS. Senza grandi sforzi, si può risalire al significato base del termine, che aveva a che fare con la parola “cane”. “Cinici”, poi, erano apostrofati i seguaci del filosofo greco antico Antistene (444-365 a.C.), forse in riferimento al luogo, fuori Atene, in cui si riunivano; forse per lo stile povero che caratterizzava il loro abbigliamento. “Cinismo” si rifarebbe dunque a questa matrice primaria dove figurano elementi piuttosto disparati: cani, filosofi, luoghi fuori dalla città, stile di pensiero (se non proprio “filosofia”), abbigliamento trasandato. Ma il termine “cinismo”, che racchiuderebbe questa trama iniziale, oggi a quali significati dà seguito? Chiedersi cosa significa qualcosa, è anche chiedere cosa implica: cosa, in effetti, si trovi nelle pieghe del suo movimento storico, del suo sviluppo. Quindi chiedersi “cosa significa” vuol dire anche fin dove arriva quel dato termine, fino a che punto dirama i filamenti della sua ragnatela. L’implicazione è, in questo senso, una direzione e un funzionamento. Cosa significa, cosa implica, come funziona, sono domande molto diverse dal “che cos’è”. Qui non si fa etimo-logia, sia ben chiaro. E neanche filosofia – per come si è abituati a pensare. In questo caso, infatti, ci si domanderebbe appunto “che cos’è il cinismo”. Che significa la domanda “che cos’è il cinismo”? Sembra che, procedendo così, invece di sciogliere un nodo, ne stringiamo altri. No. Il significato della domanda “che cos’è il cinismo” ci mostra come, così posto il discorso, non si possa che delimitare di molto il perimetro della sua efficacia d’azione, fino ad azzerarne quasi la portata. Se domandassimo qual è l’essenza del cinismo dovremmo dare una risposta univoca, inevitabilmente depurata e povera, pressoché sterile. Se domandassimo cos’è il cinismo dovremmo fermare il processo, astrarlo in una condizione statica, tanto paradigmatica quanto distaccata. Inefficace. Per questo ci piace chiedere cosa significa, nel senso di come funziona. Non fissiamo un significato in astratto, puntiamo a una matrice con elementi disparati, cerchiamo di fare reazione tra questi elementi, deriviamo un’operazione. Un senso in movimento. Un Che fare? Ovvero, che reazione si produce fra gli elementi sopraelencati (cani, filosofi, abbigliamento trasandato, ecc.)? Torniamo al “cane” e soffermiamoci su quest’ultimo inteso come quell’animale domestico che noi tutti conosciamo. Torna in mente un’immagine. Negli ultimi giorni ha piovuto molto. Pensiamo a un cane sotto la pioggia.
Sta. Raggomitolato, a prendersi tutta l’acqua che scende. Il piano del cane è un piano orizzontale, su cui è orizzontale anche il piano del cielo. Il cane sta: parallelo. È raccolto nella sua impermeabile indolenza, privo di qualunque forma di risentimento: contro la sua condizione o contro l’orizzonte. Il cane è in sé, nel segreto della sua natura che non ha alcuna “natura”. Funziona così, si prende la pioggia quando piove e il sole quando c’è il sole. Si obietterà che poi il cane stupido non sia – se piove troppo cerca un riparo. Ma il riparo risponde anch’esso a questa logica. È un funzionamento, uno sviluppo, non un’imprecazione: il cane non ha un ordine superiore contro cui scatenare la sua rabbia – e disperdere tempo e fatica. Il cane non fissa significati in astratto, non edifica gerarchie piramidali, ma traccia solo matrici e schemi funzionanti (o disfunzionanti). Segna territori: avanza o indietreggia. Eppure conosce e dimostra una lealtà sconosciuta agli uomini. Il cane, allora, è portatore di quella logica che abbiamo sopra cercato e abbozzato cercando un metodo di ragionamento e riflessione sulle parole. Il cane è portatore di una razionalità cinica. No, non sto dicendo che “cinismo” voglia dire “ragionare da cani” (in senso dispregiativo!); o meglio, sto dicendo che nel cinico c’è una sobrietà in cui è leggibile un valore, un tono e una postura che collimano perfino con la più alta forma di etica – quella per cui, assumendo su di sé il non-senso delle cose, si punta a costruire un riparo che sia anche un fare e produrre nuovi territori –; ma nel cinico abita anche una tendenza che è un eccesso. L’indolenza assoluta, che non è l’impermeabilità (comunque osmotica) del pelo del cane, ma l’incapacità a sentire e co-sentire. Il cinico, in senso deteriore, è l’”untore”, chi è capace, privo di ogni ideale, di ammalare per curare.
La ragione cinica è in fondo la ragione del nostro tempo. Un tempo in cui manca “il fine”. Un tempo sostanzialmente perso. Un tempo che richiede, per essere recuperato, di tattiche, strategie, e non conosce e riconosce più piani verticali, ideo-logie. Se è vero che, per continuare a funzionare in qualche modo, quello che ci rimane è una ragione “naturalmente” cinica, quello che spaventa è il cinismo del cinico untore. Cani sì, ma non (homo) homini lupus.
*PhD in Filosofia Teoretica e in Storia, cultura e saperi dell’Europa Mediterranea

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