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DALLA RABATANA SARACENA, RITMI LUCANI SENZA CONFINI

di Leonardo Pisani Sono indubbiamente il gruppo più rappresentativo della musica etnica lucana, anche se ne costituiscono un unicum sin

di Leonardo Pisani
Sono indubbiamente il gruppo più rappresentativo della musica etnica lucana, anche se ne costituiscono un unicum sin dai loro inizi. Il loro atteggiamento verso la tradizione è sempre stato di gratitudine per il lascito degli anziani, ma anche di consapevolezza del proprio ruolo di ponte fra generazioni.
Ma cosa sono oggi, a quarantatré anni dalla loro nascita, i Tarantolati di Tricarico? La loro natura è certamente molteplice, poiché restano in parte ciò che erano nel 1975, ma al tempo stesso si identificano anche in tutte le musiche che li hanno attraversati. 
Istintivamente e senza timore reverenziale, avevano sin da subito interpretato la poetica contadina filtrandola e accompagnandola con la sensibilità musicale di ragazzi nati a cavallo tra anni ’50 e ’60; reinventando melodie, creandone di nuove su filastrocche e giochi di bambini e finanche ripensando l’utilizzo degli strumenti musicali: il doppio tamburo a frizione (‘u cubba cubba) e il suo innovativo sistema idraulico, l’accordatura aperta della chitarra, i tamburi suonati anziché con le mani con le bacchette, e con quelle ritmiche che li hanno sempre contraddistinti, le percussioni più diverse ricavate da utensili di uso quotidiano, ecc.
Dicevamo prima della loro vocazione di ponte fra generazioni. Ebbene, il collegamento che suggerisce la loro musica è anche un altro: quello tra diverse culture. Il cartello di località di Tricarico recita: “Città arabo-normanna”. Come tutto il Sud Italia, la Basilicata è stata attraversata storicamente da numerose popolazioni e la musica che qui si è prodotta e si produce non può non risentire di tutto ciò, risultando infine come un afflato di unità fra tante realtà geografiche e culturali. È vero che nella tradizione lucana ci sono echi di tante musiche del Mediterraneo, ma la compresenza in particolare di popoli così diversi, come gli arabi e i normanni nella storia di Tricarico, rappresenta la duttilità di un popolo che ha saputo conservare le proprie peculiarità, pur adattandosi e tenendo insieme diverse identità.
La sua posizione lungo la via Appia l’ha sempre tenuta dentro un flusso di genti, lingue, costumi, quasi come una città di mare. La musica di cui parliamo è dunque innanzitutto musica di una terra separata ma al tempo stesso indissolubilmente legata agli altri paesi del bacino mediterraneo, agli altri suoni latini così come a quelli del mondo arabo, africano, balcanico e via dicendo.
Con il contributo dei musicisti più giovani che si sono avvicendati e di quelli che attualmente fanno parte della formazione, nel tempo i Tarantolati – gli “storici” Franco Ferri, Rocco Paradiso,Marcello Semisa, Pino Molinari e poi Giorgio Pavan,Gianluca Sanza,Enzo Granella,Viviana Fatigante,Pierluigi delle Noci e Luca Fabrizio – hanno acquisito una sempre maggiore e più chiara consapevolezza dell’influenza che le musiche “altre” hanno da sempre avuto nella loro creatività, arrivando oggi a produrre un album come “Terra che trema”, in cui sono presenti composizioni che possiamo semplicemente definire di world music. Sono canzoni di uomini e donne del sud che guardano alla propria terra con aspirazioni di unità, di impegno e di lealtà, pur consapevoli che la realtà è spesso di tutt’altro segno, tale da suggerire di fuggire, di trovare un’altra via, anche se significasse lasciare lì una parte del proprio cuore.Ecco i Tarantolati. Dalla Rabatana a “un monta la Luna” dalla “la Terra Trema” a Cara Ninnella. Giovanni Vacca, raffinato critico musicale afferma: «garantiscono un concerto di forte impatto emotivo.. in cui conta molto anche l’impatto visuale perché nella cultura musicale il gesto, il movimento scenico è importante quanto la musica». Musica che affonda le radici nel terreno di una “terra” senza tempo, “Gli orti pingui sulle pietre” descritti dal sindaco poeta Rocco Scotellaro, culture musicali e antropologiche che hanno fuso lucani e romani, oschi e greci, longobardi e saraceni, con la loro abilità di agricoltori in un luogo che seppero rendere fertile, come la loro Sicilia, con quelle ampie terrazze a ridosso delle mura dei quei luoghi dove avevano finito il loro pellegrinare tra coste e flutti del Mediterraneo. Ancora oggi sotto i quartieri della Rabata e della Saracena, sembra risuonare la preziosa acqua negli “orti saraceni” , un ritmo ancestrale vivo nel presente e protratto al futuro. Canta l’assiolo / la notte sempre mi fai tanto male / col fischio mio quaggiù son tutto solo / Canta l’assiolo, la lirica eterna di Scotellaro ci riporta ai ritmi “tarantolati” di una musica senza confini, che naviga in un mare nostro, che merita arte e non lo strazio di pianti di dolore e morti odierne. La bellezza salverà il mondo, speriamo e la bellezza può essere creata dall’umanità, in un linguaggio universale con le melodie di note di una musica miscelata di culture diverse, come un arcobaleno non solo di sette colori ma di mille sfumature sincopate, dove anche una pausa è ritmo, dove anche un bemolle ha il sapore dell’Universo. Per concludere, nelle parole degli stessi Tarantolati riportiamo il senso ultimo del loro contributo a questa cultura delle radici e dell’incontro: «In effetti, da tricaricesi ci siamo sempre sentiti come in un porto, dove arrivavano le genti e le “merci” più diverse e da cui avevamo il dovere di partire per fare altrettanto, portando il nostro contributo agli altri. A maggior ragione oggi, abbiamo la sensazione di essere come la fiumara (nel nostro dialetto l’aimare, che è anche il titolo di una delle nostre ultime canzoni) che scorre e lambisce le varie contrade di questa terra. Ciò che portiamo è un’acqua molto particolare, perché è quella dello stare insieme fra diversi, condividendo ciò che ci fa uguali, il pulsare di questo ritmo invincibile, inarrestabile, che ci lega gli uni agli altri e contemporaneamente non ci separa mai dai nostri antenati, perché il nostro passo nella danza fa tremare la terra, mentre bussiamo con i nostri piedi alla loro dimora.»

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