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LORENZA, IL CORAGGIO DIRE NO!

di Leonardo Pisani La chiameremo Lorenza, un nome a caso ma non troppo, un nome simbolico. Potrebbe essere chiunque, potrebbe

di Leonardo Pisani
La chiameremo Lorenza, un nome a caso ma non troppo, un nome simbolico. Potrebbe essere chiunque, potrebbe vivere ovunque In Basilicata come a Lombardia, in Friuli come in Sardegna. Il suo volto è il volto di tante altre donne, potrebbe avere occhi neri oppure cerulei. Una donna, una ragazza come tante altre, passioni, studi, un amore, un lavoro. L’incontro alla Cgil, noto subito una finezza nei comportamenti e una gentilezza vera, genuina ma nello sguardo anche una determinazione unica. Lorenza è una di quelle ragazze che ha studiato, la passione per la comunicazione l’ha trasformata in lavoro. Digitale, web, marketing, e tante altre cose. Un bagaglio di professionalità che trova uno spiraglio in una delle tante aziende, società, ditte che cercano di essere visibili. Se non si è conosciuti nel mondo interconnesso, non si esiste. Una moderna società commerciale deve essere anche “virtuale”. Lorenza va a lavorare in una di queste società, deve aiutare a fare profitto, deve dare le sue competenze nel digitale e tanto altro. Bene verrebbe da pensare, peccato che prima si debba passare sotto”le forche caudine” del lavoro nero. Ore e ore a smanettare, dalla mattina alla sera, a ritmo continuo. Il lavoro nero nel settore della visibilità, purtroppo non è l’unica, lo sappiamo. Poi Lorenza dopo alcuni mesi di duro lavoro, ha l’ardire di chiedere un contratto. Viene “licenziata” senza essere mai stata assunta… Paradossi dei diritti negati. Il lavoro nobilita l’uomo e anche la donna, mica si lavora per avere un contratto regolare e un salario regolare.. Ma le sue competenze servono al profitto, è richiamata con un contratto regolare, peccato che percepisce poi meno della busta paga, il lavoro svolto è di mansione superiore a quello regolarizzato, è part time ma al solito Lorenza lavora da mattina a sera tardi, anche a casa se deve trovare qualche idea. IL lavoro del mondo contemporaneo, bisogna produrre ma essere sottopagati. Lorenza poi segue anche i cicli della natura, ha un marito e arriva la bella notizia: diventerà mamma. Resta a lavorare sino al sesto mese di gravidanza, poi il ginecologo le ordina di mettersi in attesa, il parto potrebbe essere difficile. Tutto in regola, certificati, dopo il parto indotto e poi fa la richiesta di due mesi di allattamento, ma non ha risposte, il silenzio da parte dei datori di lavoro, datori non ci sono mai. Ci va di persona, con il passeggino. La fanno ritornare a lavoro, ma è cambiato tutto: questa volta il part time è reale, due ore di mattina e due nel pomeriggio ma le danno una scrivania e due sedie in una stanzetta, prende qualche telefonata è diventata una centralinista, poi neanche quello. Isolata, a far nulla, è iniziato il mobbing. Lorenza mi guarda e mi dice: « Vorrei solo essere riconosciuta il lavoro che ho svolto, quello vero da professionista della comunicazione. Non lo faccio per soldi ma per la mia dignità di lavoratrice e di persona e lo faccio per altre donne che vivono questa situazione, non tutte hanno il coraggio di denunciare».. La dignità si legge negli occhi, non solo nelle parole. Il mobbing è ridurre una persona a essere una “non persona”, una violenza psicologica ed etica. Lorenza, il nome come chi ha Konrad Lorenz, il primo che parlò di mobbing, ha detto NO.

Anna Russelli

«La storia di Lorenza è una storia esemplare per la determinazione che la lavoratrice dimostra nel non cedere di fronte alle pressioni quotidiane, pesantissime, a cui è sottoposta ormai da diversi mesi – spiega Anna Russelli, segretario regionale Cgil- La lavoratrice si reca ogni giorno sul posto di lavoro nonostante il demansionamento, nonostante le mortificazioni, la scrivania vuota, le minacce sottintese o esplicite e, naturalmente, l’assoluta incertezza del futuro. E’decisa a non cedere. A tenersi stretta la propria dignità. E’ una lotta impari, ma lei è incurante e continua costantemente a tener testa alle vessazioni e ai soprusi. Lorenza è ammirevole e coraggiosa; purtroppo, tante altre non ce la fanno. Si arrendono, e abbandonano il posto di lavoro pur di non sottoporsi alle angherie. Oppure sono costrette a rimanere perché non hanno altre possibilità, ma pagando un prezzo altissimo dal punto di vista dell’equilibrio e della salute personale.Naturalmente le donne non sono le uniche vittime di mobbing e discriminazioni, ma altrettanto naturalmente sono molto più esposte e fragili. Il lavoro di cura in famiglia è ancora tutto gravante sulle donne; al di là della retorica che tutti fanno sull’argomento, la maternità è considerata un ostacolo alla carriera, una scelta “personale” della donna che non può poi pretendere comprensione e aiuto per la gestione pratica della stessa.La classica frase che sento troppo spesso ripetere sui luoghi di lavoro, non soltanto dai datori ma troppo spesso anche dai colleghi è “deve decidere se fare la mamma o fare carriera”. Volendo anche lasciare da parte l’odiosa arretratezza contenuta in una affermazione del genere, troppo spesso si dimentica, inoltre, che quella che viene chiamata “carriera”, serve nella maggior parte dei casi alla sussistenza del nucleo familiare.Anche per questo la Cgil di Basilicata, qualche anno fa ha istituito Sportello Rosa, struttura di riferimento per le lavoratrici in difficoltà, che ha lavorato e lavora soprattutto su casi di mobbing, ma anche stress da lavoro correlato e disagio ambientale.Come si supera una condizione del genere? C’è sicuramente un dato culturale molto forte, soprattutto nel nostro Paese e, aggiungerei, nella nostra regione. E quello si supera con un impegno costante e continuo delle istituzioni e degli attori sociali e politici a diffondere cultura positiva: sulla immagine della donna, sul significato della genitorialità, sulla introduzione di misure normative e di welfare robuste che favoriscano la condivisione delle responsabilità in famiglia e il rafforzamento del sistema educativo e dei servizi a sostegno della famiglia».

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