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LA COMICITA’ E’ ARTE E CATARSI. DINO PARADISO SI RACCONTA

di Leonardo Pisani Con Dino Paradiso ci siamo incrociati spesso, e spesso solo per breve tempo. L’ho seguito agli inizi

di Leonardo Pisani
Con Dino Paradiso ci siamo incrociati spesso, e spesso solo per breve tempo. L’ho seguito agli inizi della carriera, l’ho seguito dopo. Dino fa parte di quegli uomini di spettacolo atipici, sa di aver talento ma resta con i piedi piantati alla “terra” quella terra lucana che ama tanto. Atipico perché puoi parlare di tutto e non solo di lui; atipico perché ascolta e dialoga. Per questo l’intervista segue un percorso atipico, il cabarettista è Dino, l’artista è Paradiso, stessa persona ma nella complessità della realtà, sono due aspetti differenti del mondo artistico e umano di Dino.
La comicità è arte genetica.” Lo diceva il compianto Paolo Villaggio, sei stato un predestinato a questa arte oppure una improvvisa folgorazione sulla “via del cabaret” ?
«Fai bene a ricordare il grande Paolo Villaggio forse ultimo vero comico italiano. Credo abbia ragione a dire di essere predestinati ma nessuno può sapere se lo farai di mestiere. Da piccolo mi è sempre piaciuto ridere ma soprattutto osservare quelli che lo facevano. Sono stato fortunato perché ho avuto una famiglia molto” portata “sull’argomento. Mia madre è una perfetta imitatrice ed attrice, mio padre spiritoso e i miei zii maestri del racconto comico. A natale quando la famiglia si riuniva sembravano le prove di un show dove gli attori veri erano gli altri e noi quelli che li raccontavano, nelle loro caratteristiche. Comunque non avrei mai pensato di fare il comico. Estato dopo il 2007, quando ho terminato la scuola per attori comici diretta da Serena Dandini che ci ho creduto un po’ di più, e man mano eccomi qua. Certo spiegare a mio padre che la laurea in scienze politiche, forse, sarebbe servita per fare il comico non è stato facile».
“Niente si sottrae al comico, neanche la riflessione sul comico”. Un aforisma di Giuseppe Pontiggia. Ora a distanza dal il “Niente si sottrae al comico, neanche la riflessione sul comico”. Un aforisma di Giuseppe Pontiggia. Ora a distanza dal tuo esordio, hai continuato a far spettacolo. Ti sei mai chiesto perché continui a fare cabaret e non hai scelto altre strade?
«Per stare sul palco devi partire da te stesso. Il palco è un amplificatore quindi se non conosci bene i tuoi limiti e le tue lacune sul palco si vedranno tutte ingigantite. Nel mio caso poi il comico pensa, osserva, legge, si fa un idea e prende una posizione. Il tutto fatto attraverso la riflessione comica. Questo che ho appena descritto è il mio modus operandi e da quando ho iniziato non ho più smesso. Il comico come il contadino vive di filiere corte. Pianta la sua riflessione comica e raccoglie (o almeno spera) l’applauso del pubblico. Vive in base al clima: se piove le serate saltano.  Come un keynesiano devi pensare in modo anticiclico, all’inverno quando è estate e viceversa. E’ una attività quasi primitiva. Prima di fare il comico per anni ho fatto il cameriere, il barman, il bagnino, dopo la laurea mi sono occupato di progettazione in un GAL per due anni, senza tralasciare la mia esperienza di amministratore locale per quasi 10 anni. Poi ho incrociato la strada comica ed ora credo di essere soddisfatto. Quindi ora coltivo il mio campo».
“La comicità implica l’esperienza indispensabile della serietà, mentre la serietà non implica affatto l’esperienza della comicità.”  Lo diceva Alberto Moravia, Dino è così difficile far ridere?
«La risata nasce perché indotta. E’ una reazione ad uno stimolo. Se vedi uno che cade in strada in modo rocambolesco, ridi. Se uno distratto sbatte ad un palo, ridi. Stanlio ed Olio o Chaplin sono esempi straordinari. Si può ridere perché ascolti una barzelletta divertente o una battuta sagace ma c’è chi ride perché dopo il terremoto dell’Aquila pensa agli affari che farà con la ricostruzione. Il punto dunque non è che far ridere è difficile ma cosa si utilizza per arrivare a suscitare la risata. Questo è difficile. E’ difficile far ridere con intelligenza, è difficile far ridere senza usare volgarità, è difficile far ridere non cercando a tutti i costi la battuta perché il comico punta al silenzio che la segue. Ecco perché per far ridere bisogna essere seri».
Gigi Proietti sosteneva che “La comicità è una  questione complessa, non basta mettere in scena una cosetta simpatica per guadagnarsi gli applausi.”  Quanto è difficile scrivere per il cabaret?
«Tantissimo. Ogni testo poi deve rispettare le strutture comiche che come per i romanzi o la prosa i film devono essere assolutamente tenute in considerazione. A questo va aggiunto che spesso il testo si deve adattare a chi lo interpreta. Tu citi Gigi Proietti. Nel suo immortale “A me gli occhi “interpreta mille personaggi, tutti diversi. Se mettesi in bocca ad uno di loro il testo di un altro la cosa non funzionerebbe. Se consideriamo quanto detto prima in merito al contenuto la cosa si fa veramente complicata».
Mi ha colpito questa frase di Milan Kundera “I veri geni del comico non sono coloro che ci fanno ridere di più, ma coloro che svelano una zona sconosciuta del comico”.
«Come accennavo il comico lavora molto su stesso e sui suoi limiti. Esprimersi per il comico è una sorta di catarsi che nasce dal bisogno profondo di comunicare agli altri. Ecco perché il comico non ha paura, non indietreggia neanche difronte ad una sua debolezza ma al contrario la mette a nudo e davanti agli altri. Inoltre il comico ha con il pubblico un rapporto biunivoco e senza filtri. Quando è in scena non ha la quarta parete cioè quella parete immaginaria che invece esiste nel teatro e che in un certo senso tutela l’attore. Se reciti Moliere indipendentemente dal pubblico devi andare avanti. Il comico invece parla col pubblico, si fa interrompere, accetta addirittura la provocazione. Questo per dire che nel comico c’è la voglia primitiva di stabilire un rapporto umano e l’uomo è fatto di limiti, di paure. Il comico è sul palco chi si immola per tutti. Ha coraggio di esprimersi. Il clown è un comico e spesso è triste. Da lì infatti nasce il riscatto dell’applauso. In quel momento il pubblico dice:” noi siamo come te “e il comico dice: “io sono come voi”»
In uno spettacolo si possono lanciare messaggi, si può facendo ridere far riflettere senza assurgersi a dispensatori di verità? Tu hai la passione per la politica e sei stato impegnato in politica. tra l’altro. 
«Premesso che la verità è un concetto abbastanza relativo che spesso segue la cultura del tempo. Per cui era vero che il progresso avrebbe elevato socialmente “i cafoni “ma è anche vero che lo stile di vita dei cafoni aveva un rispetto per il mondo e quindi del prossimo che forse il progresso impegnato a seguire se stesso non ha. Forse mi ripeto ma il comico dal suo punto di vista, prende posizione e non ha paura di farlo. Non credo che voglia imporre nulla. La Politica è passione ma ha altre finalità e soprattutto altre responsabilità poiché è basata sulla fiducia. Entrambi però amano la libertà e la difendono». 
“Girano tanti lucani per il mondo…” Le parole del poeta-ingegnere Leonardo Sinisgalli ci ricordano che siamo stati una terra di emigranti. “Io sono Lucano” invece la tua frase che da inizio alla canzone “Fiore di Lucania” Hai scelto di rimanere nella tua terra. Perché? Te ne sei pentito? 
«Non sono affatto pentito anzi ho fatto della mia lucanità il tratto distintivo della mia comicità. Io racconto la mia terra che essendo sconosciuta a molti risulta nuova. L’emigrazione poi solitamente tocca settori economici già consolidati, la mia invece è una attività nuova che non ha molta concorrenza. Credo che l’Arte in generale potrebbe essere un settore affascinante sul quale puntare e attraverso il quale tenere alcuni legati alla propria terra»
Il tuo sogno nel cassetto?
«Diventare uno bravo e poi scoprire che bravi non si diventa mai».
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